Una sala non piena, un pubblico freddo, poche domande al regista Tony Saccucci (tempi contingentati). L’anteprima del docufilm Lotta Continua al Torino Film Festival non ha avuto l’accoglienza sperata dalla produzione. E nemmeno meritata a detta di chi era presente.
Noi l’abbiamo visionato nella sua versione lunga, quattro episodi su Rai Play, per averne un’idea precisa ma la delusione è stata inevitabile. Abbiamo visto una sequenza dei soliti personaggi: ex leader, un paio di femministe, un outsider impresentabile come Mughini scelto “per dare una visuale esterna” ma in realtà presenza quasi provocatoria nella sua abituale teatralità edonista e nel ruolo di Pubblico Ministero.
Abbiamo visto una versione della storia di Lc riproposta per l’ennesima volta da alcuni di coloro che l’hanno portata alla dissoluzione, per interesse personale, per brama di protagonismo, per paura del futuro (1). La tesi di questi personaggi, ribadita qui e già negli anni da innumerevoli dichiarazioni e interviste, è che la fine di Lc fu causata dall’irrompere della questione femminile e dei nuovi “movimenti giovanili” che il Partito Lc non seppe gestire e che quindi “lo scioglimento” fu un caso di eutanasia naturale. Uno dei tanti argomenti pretestuosi addotti dall’ex gruppo dirigente e dai loro amici per giustificare la fuga dalle responsabilità per gli errori politici commessi (il voto al Pci alle amministrative del 1975, le elezioni nel cartello di Dp nel 1976) e per il tentativo fallito di vincere il Congresso di Rimini e trasformare Lc in un partitino istituzionale con cui puntare alla propria realizzazione personale e professionale.
Il docufilm accoglie questa narrazione in cui sono assenti ingiustificate le ragioni e le opinioni delle migliaia di militanti che erano il corpo e l’anima di quell’ultimo partito rivoluzionario del XX° secolo, e in cui è anche assente, o per lo meno vagamente accennato, il concetto di autonomia delle lotte di fabbrica e sociali su cui Lc è nata e si è sviluppata e che guidò le grandi lotte del decennio 1968-1978 ( l’ evidenza, nella scelta degli spezzoni filmati, è data agli striscioni sindacali).
Uniche varianti dal coro, la dignitosa testimonianza di Erri De Luca palesemente dissonante che, tra le altre cose, ricorda l’efferata uccisione di Pietro Bruno da parte della polizia (settembre 1975) e, ricordando il giovane militante del Servizio d’Ordine romano, si commuove e si prende la sua responsabilità (“L’ho mandato io…”); il racconto dell’ex operaio Fiat Andrea Papaleo che in poche frasi descrive l’inferno delle condizioni di lavoro alla Verniciatura della Mirafiori; il breve accenno di Cesare Moreno alla mensa proletaria e all’asilo popolare di Napoli.
In compenso, ampio spazio è dedicato alla morte di Calabresi e all’adempimento di rito delle autofustigazioni postume sulla campagna di accusa del commissario, celebrato qui come un martire, non come uno dei tanti caduti sul terreno delle durissime lotte sociali di quegli anni. Non poteva mancare la denuncia di Lc come “regno della violenza”, della “ferocia dei militanti” (Mughini), e della “degenerazione militarista” di Lc (Lerner) sempre utile richiamo ad una delle “verità” sbandierate nel tempo dagli ex leader per riciclarsi come “bravi ragazzi”.
Riscontriamo un veloce excursus sulla strage di Piazza Fontana che evita accuratamente di citare le responsabilità della Dc e del presidente Saragat (2) nell’ordire il complotto stragista e nel metterlo in atto tramite l’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno, il Sid e la manovalanza fascista. Sull’argomento, il vecchio Lerner, sorprendentemente dimentico dei risultati delle numerose controinchieste succedutesi nel tempo (3), sdogana la Dc e le complicità dell’intero apparato politico riesumando la comoda formula dei “servizi deviati”. Segue un altrettanto veloce accenno alla “caduta” di Giuseppe Pinelli dalla finestra dell’ufficio di Calabresi con un Mughini scatenato che avalla la versione giudiziaria del “malore attivo” di Pinelli e quella della questura sulla dinamica dei fatti (“racconto ultracredibile”).
Per rimanere alle “chicche” non possiamo non annotare quella molto significativa della Franzinetti, che fu esponente estrema delle femministe: “Il tempo dei maschi era finito…” dice, a conferma che le divisioni create in Lc dalla questione femminile erano legate a una posizione che, adottando lo scontro di genere, negava un’analisi di classe degli interessi delle donne e si poneva come perfettamente organica alla voglia di fuga del gruppo dirigente.
In conclusione, il docufilm è un prodotto creato e gestito da un regista di nuova generazione che ha confessato al Tg3 la sua completa estraneità di partenza all’oggetto affrontato; è un prodotto superficiale basato sul filo conduttore di un libro del 1998 (4) e appaltato probabilmente per facilità e convenienza ai personaggi più noti di quella che viene definita da tempo “la lobby di Lotta Continua”, definizione che, per bocca di Gad Lerner, essi rifiutano argomentando che la solidarietà agli arresti di Sofri e la seguente mobilitazione di intellettuali, politici e professionisti furono “gesti di amicizia” disinteressata. Certo fu anche quella ma come spiegare invece il silenzio profondo delle migliaia di militanti consegnati all’amarezza, all’oblio storico, all’isolamento sociale, alla droga o alla scelta avventurosa della lotta armata? (F.S. 16.12.2022)
(1) Per un’ampia analisi della storia e della dissoluzione di Lc, v. F. Salmoni. I Senza Nome. Il Servizio d’Ordine e la questione della forza in Lotta Continua, DeriveApprodi 2022.
(2) v. in particolare D. Conti, L’Italia di piazza Fontana, Einaudi, 2019
(3) Ibidem + D. Conti, La spia intoccabile, Einaudi 2021 e G. Fuga-E. Maltini Pinelli. La finestra è ancora aperta, Colibrì 2016
(4) A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, Mondadori 1998
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