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Antifascismo di regime, buchi neri e continuità storica



Ieri, 25 aprile, ho visitato a Ivrea una mostra sulla Xma Mas che tutti dovrebbero vedere, specialmente coloro che sostengono che tutte le parti, tutti i morti di allora sono uguali. Tra i tanti crimini efferati attribuiti a quella banda di assassini al servizio dei tedeschi ce n’è uno che quasi non mi ha poi fatto dormire di notte: la storia del giovane partigiano gappista Ferruccio Nazionale, 19 anni, arrestato e impiccato da morto (per le sevizie, la lingua strappata e gli occhi cavati) sulla piazza del Municipio. Con il groppo allo stomaco, non ho potuto fare a meno di ricordare l’altro ragazzo partigiano, Emanuele Artom, la cui storia e vicenda giuridica che seguì, dopo la Liberazione, Bianca Guidetti Serra scrisse in un breve opuscolo per le scuole. Anche a Artom non fu risparmiato nulla dalle SS Italiane: gli furono spaccate tutte le ossa, fu montato all’indietro morente su un asino per sbeffeggiarlo, poi finito. Il suo corpo, si dice che fu lasciato semisepolto sulle rive del Sangone, ma mai più ritrovato. Inutile dire che i responsabili dei due crimini sfuggirono tutti alla giustizia grazie all’amnistia di Togliatti: Valerio Borghese si arrese agli americani, uno solo dei suoi luogotenenti pagò con la vita, tutti gli altri sprofondarono nell’oblio del dopoguerra; al capo degli assassini di Artom, tornato in italia dopo breve latitanza nella Spagna franchista, fu concessa pure la pensione.

Di contrasto, nell’eccellente libro di Santo Peli, Storie di Gap (Einaudi, 2014) si narra della difficoltà di arruolare elementi per la guerra nelle città per i tanti scrupoli morali, anche di certi militanti più duri e coraggiosi, all’idea di eliminare a sangue freddo gerarchi e militari tedeschi. O anche dei tormenti che perseguitarono a lungo alcuni componenti della genovese Brigata Balilla per la fucilazione per controrappresaglia di 39 fascisti e tedeschi che fermò una catena di rappresaglie sulla popolazione.

Non erano tutti uguali.

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C’è un buco di una cinquantina d’anni nella retorica istituzionale antifascista. Sono gli anni del regime democristiano e delle stragi, gli anni di uno scontro sociale culminato nel periodo 1968-19780 durante il quale le istituzioni tramite i propri apparati fecero ampio uso della manovalanza fascista.

Di quegli anni, nella retorica istituzionale di questi giorni non si trova traccia. Nei discorsi e negli scritti di questi giorni il capitolo fascismo è confinato ai disastri del ventennio. Già la Repubblica Sociale è un argomento su cui fare slalom con circonlocuzioni tipo “i fascisti alleati dei nazisti”, “le stragi nazifasciste” e poco meglio.

Il perché di queste evoluzioni è evidente: costringere nel silenzio un’intera stagione del Paese in cui la Dc, il partito di Mattarella e di tanti personaggi ancora in giro per partiti e istituzioni, ha monopolizzato il potere con il sostegno diretto (Tambroni) o indiretto del Msi (tutte le stragi della strategia della tensione) e delle bande fasciste di Rauti e Almirante scatenate nelle grandi fabbriche a organizzare il crumiraggio, ad attaccare i picchetti operai e le scuole. Lo storico Davide Conti ha raccontato nel suo Gli Uomini di Mussolini (Einaudi, 2017) il trasbordo massiccio di uomini di Salò e di criminali di guerra italiani dentro le istituzioni fino alla Corte Costituzionale e in L’Italia di piazza Fontana (Einaudi,2019), le trame eversive dei governi Dc che coinvolsero a tutti i livelli le più alte cariche dello Stato fino a quella più alta, i servizi segreti, non “deviati” come è ancora vezzo affermare ma ben saldamente indirizzati.

La bibliografia ormai non manca e stabilisce nettamente tutte le responsabilità dei crimini di sangue sui cittadini di quegli anni. Giustificazioni? La guerra fredda, le tensioni sociali… Se la destra continua nel tentativo di equiparare le parti avverse negli anni della Guerra di Liberazione, il regime attuale del Pensiero Unico neoliberista cerca di equiparare le parti avverse anche nel conflitto sociale dei larghi anni Settanta, un conflitto di nuovo ad armi impari: scioperi, manifestazioni, strutture di autodifesa in piazza, contro le bombe, le pistole della polizia, i coltelli e le pistole degli squadristi di Almirante, e le autoblindo a Bologna per schiacciare i moti del 1977 (con l’assenso del Pci). La Meloni (ex Fronte della Gioventù) premier, la figlia di Rauti in Parlamento e la carica di Presidente del Senato all’ex capo degli squadristi milanesi confermano la continuità con quegli anni, la continuità di una storia mai risolta. Altro che fez, orbace e saluti romani.

Tutto quel periodo viene sepolto nella stessa confusione che avvolge l’epopea resistenziale evocando un unanimismo nazionale per esorcizzare gli aspetti del passato che giova tacere, per negare che l’antifascismo è e debba essere divisivo, di fatto per non compromettere la stabilità politica. La realtà attuale italiana dimostra invece che quella stagione non è ancora finita. Buona parte dei manifestanti del 25 aprile testimoniava ieri quella convinzione e respingeva le forzature storiche come quella che vorrebbe l’utopia nazionalista dei nazisti ucraini di oggi equiparata alla nostra Resistenza. La Torino istituzionale ha reagito con le cariche della polizia.

Restiamo divisivi! (26.4.2023)

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