Guido Viale. ed. Interno 4, 2022. € 15
Inaspettatamente per tempi e contenuti, è in libreria questo libretto di Guido Viale, una delle menti più brillanti nel gruppo dirigente di LC, e, stando a quanto da lui stesso dichiarato a suo tempo, anche uno dei primi ad esprimere la volontà di abbandonare (1). Su richiesta dunque da più parti, mi risolvo a recensirlo.
Dicevo inaspettatamente perché non è chiaro cosa abbia spinto oggi l’autore a ripercorrere strade già ampiamente battute: sul periodo ’68-69 con le lotte studentesche e la nascita di LC dall’incontro studenti-operai c’è ormai un’ampia bibliografia che include un libro dello stesso Viale (Il Sessantotto, Mazzotta, 1978) decisamente più completo e specifico di questo. Qui gli sono dedicate più di 50 pagine su 163, con qualche interessante riflessione evidentemente maturata più recentemente ma la storia è sempre la stessa. Il tocco di novità è semmai l’approccio che qui se ne fa: l’enfasi, a mio parere eccessiva, sui “nuovi rapporti” che sarebbero stati alla base di quella indimenticabile esperienza umana e sociale: l’entusiasmo, l’amicizia, il senso di liberazione da tutti i lacci della morale del tempo e dalle regole, la rottura della “normalità”, il “comune sentire”, lo “stare insieme”, in un quadro di buoni sentimenti destinati a divenire tanto predominanti da condizionare nel giro di pochi anni la vita interna e i rapporti nel partito LC . Da tale positivo afflato originario, va sottinteso, deriverebbero le contraddizioni tra la severa militanza e il gioioso attivismo che avrebbero nutrito la narrazione postuma degli ex leader sulla fine di LC. Oltre naturalmente alla “dissoluzione di molte certezze nate e maturate in seno al movimento a opera del femminismo”, immancabile elemento giustificativo, abusato luogo comune di quella narrazione, chiave interpretativa che vuole ricondurre alla tesi dell’eutanasia spontanea e dell’inevitabilità storica. Il tutto viene servito con un linguaggio leggermente involuto ma abilmente accattivante da persona avvezza alla dialettica politica. Fin qui insomma un trattatino alchemico tra sentimenti e scienza politica, un bignamino del ’68 di cui dubito comunque che si sentisse il bisogno. Tanto più che vi sono riproposti articoli e interventi dello stesso autore già pubblicati.
Al secondo tema portante, quello che sembra essere il vero scopo del libro, sono dedicate altre 50 pagine abbondanti, sotto il titolo significativo “La Vendetta”, cioè il teorema secondo cui fin da sempre il potere ha cercato di sopprimere LC e non essendoci riuscito prima ha costruito il caso Marino per raggiungere lo scopo. In questa cinquantina di pagine si ripercorre sostanzialmente la vicenda del processo a Sofri, Bompressi e Pietrostefani con reiterato vigore. Verrebbe facile dire che a sopprimere LC ci ha pensato ben prima proprio quel gruppo dirigente in nome di un progetto di trasformazione in partitello semi istituzionale di area genericamente progressista con cui coltivare le proprie singole ambizioni. Ma seguiamo invece il ragionamento dell’autore.
Ora, che lo Stato abbia sempre perseguito il fine di eliminare Lc è sempre stato evidente come era naturale che accadesse in una situazione di scontro sociale in cui LC aveva ruolo preminente. Lo stanno a dimostrare i caduti, i feriti e i mille processi con relative detenzioni comminate ai militanti di Lc e di tutta la sinistra rivoluzionaria in quel quasi-decennio. A occhio, direi che la Vendetta dello Stato contro LC era cosa quotidiana. E’ altrettanto evidente che il “pentimento” di Marino abbia offerto la ghiotta occasione di incastrare due tra i più noti ex leader ma di che stupirsi e perchè fare del vittimismo? Sofri era il Segretario Nazionale e in quella posizione si assumeva tutte le responsabilità, quelle stesse che a Rimini né lui né alcun altro dirigente si era assunto per evitare lo sfascio (come sarebbe stato compito di dirigenti seri) lasciando invece al proprio destino migliaia di militanti. Altro che amicizia, comune sentire, buoni sentimenti! Agli operai licenziati e sbandati di cui Viale ammette il ritorno a uno status di nuovi “emarginati…anche con vicende personali drammatiche”, ai “più derelitti” che dovettero sfangarsela “nei lavori socialmente utili…o nel pubblico impiego…o come ristoratori …o si “inventarono un nuovo mestiere”, a quei molti che dovettero “trovarsi un modo di campare”, si offre la consolazione di aver avuto la vita “arricchita dall’esperienza di LC”. E quei proletari che erano il corpo militante del partito, quelle centinaia di compagni dei SdO chiamati allo “scontro generale” dalla tribuna della Convention Nazionale del 1972 e in mille altre occasioni? Per loro pochi accenni di malcelato rancore: erano quelli con “la mitologia del sanpietrino, della spranga , della bottiglia molotov” adottata “per mettere in scena quegli scontri di piazza su cui era stata costruita parte della propria identità; e che erano diventati un feticcio per tanti militanti che su di essi misuravano la coerenza con le proprie idee”… (2).
Anche le pagine dedicate alla rivisitazione dell’inchiesta che ha portato al processo Sofri, Pietrostefani e Bompressi, non offrono niente di nuovo rispetto a quella ampia bibliografia che si è a suon tempo occupata del caso: le tante contraddizioni del pentito Marino, le camarille tra magistratura e politici (del Pci), l’ “ insano spirito di vendetta” non solo contro gli imputati ma addirittura contro tutta la generazione del ’68. Si rinfrescano pure quelle espressioni di pentimento postumo per la campagna contro Calabresi: “affermazioni e parole d’ordine settarie, spesso sciocche, a volte truculente…immagini ed espressioni inaccettabili…senza scusanti…”. Insomma, pentito lui, pentiti loro: un bel mucchio di pentiti. Siamo sempre stati bravi ragazzi, i cattivi erano altri , sembra dire Viale a se stesso, ai suoi ex colleghi e a quella schiera di ex che hanno risposto all’ultimo appello dei “ leader”, per nostalgia di un sogno giovanile spezzato dalla fatalità della storia, per rivendicare una visione ludica e innocente della lotta di classe. Forse non “lobby” ma precursori consapevoli di una sconfitta epocale della classe, di un antifascismo disarmato, di un vuoto politically correct, del buonismo di sistema e di un revisionismo storico che ha cancellato la storia di una generazione. (18.2.2023)
NOTE
(1) A, Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, Mondadori 1998. Riferendosi al gennaio 1973 (solo 8 mesi dopo la convention nazionale del 1972 che delibera la forma partito), Viale dichiara: “LC era finita già allora. Feci un documento per dire ‘la lotta alla Fiat non c’è più…Rompiamo le righe, usciamo di scena da vincitori, in fondo qualche risultato l’abbiamo ottenuto; continuiamo senza l’organizzazione, basta con le strutture, ognuno prosegua a far politica sul territorio…’ ”. Ma va a Roma per entrare nel Comitato Nazionale. Dopo neanche due mesi gli operai occupano la Fiat.
(2) Un’inestinguibile avversione quella di Viale per “il nucleo più irriducibile dell’ormai ex movimento”. Del resto, fu lui a rivelare, ancora a Cazzullo nel 1998: ”Uno dei buoni propositi con cui andammo al Congresso di Rimini era smantellare il Servizio d’Ordine”
Ciao Fabrizio,
avendo letto entrambi i volumi, il tuo e quello di Guido Viale, e pur condividendo una parte non piccola delle tue osservazioni critiche, non credo peró che questo ulrimo contributo sia solamente da rigettare in modo troppo perentorio. Non fosse altro perché a Guido Viale tutto si può rimprovere meno che avere conservato un rapporto leale, per quanto critico, con il suo passato di militante, al contrario di altri che, e qui hai ragione, sono transitati verso orizzonti inaccettabili di rottura con il proprio passato. Ma che cosa dovrebbe interessarci Fabrizio? La storia della classe dirigente di LC o la possibilità, e questa mi sembra la chance piú importante ed essenziale a distanza di tanti anni, di da…